divisare

Commento in margine ad un progetto per Atene

Mentre sto cercando di venire a capo del mio primo progetto greco, un progetto per Atene molto difficile, l'amico Costantino Patestos mi chiede di scrivere una breve premessa all'antologia di miei scritti da lui curata e tradotta in greco. E io, in questo momento, non posso far altro che partire da questo lavoro, che è sì un lavoro come gli altri ma nello stesso tempo così diverso e nuovo per me, per cercare di dire quello che in ogni caso non avrebbe molto senso scrivere nella relazione tecnica di un progetto.
Un lavoro che mi costringe a riflettere, come non avevo mai fatto prima, sull'architettura classica, sulla città greca antica, su Atene, come se fossero dei fatti pratici, come sono stati e come sono in realtà, ma non per me almeno fino a oggi. Come fatti pratici su cui fare delle considerazioni di tipo operativo, prendere posizione, prendere delle decisioni, ecc.. Un lavoro che mi costringe a vedere il Dypilon e l'Accademia, ma anche la Pnice o il teatro di Dioniso ad esempio, come risposte a problemi pratici fra loro correlate, prima che come luoghi che sono oggi per noi anzitutto un enorme deposito di idee e valori. Un lavoro che mi costringe, per estensione, a vedere il tempio greco per antonomasia, il Partenone, come un fatto tecnico/pratico fra gli altri. - Un bel cambiamento rispetto al modo in cui ho guardato queste cose fino ad oggi.-
Il mio rapporto con l'architettura greca è sempre stato un rapporto difficile, ancora adesso faccio fatica a riconoscervi una qualche relazione col mio lavoro, ma senza alternative finora. Per me l'architettura greca, l'architettura classica, è sempre rimasta un pò come un concetto astratto, come qualcosa di puramente teorico, assurdamente, vista la sua incontestabile realtà, vista la sua vistosa presenza su una spiaggia o in cima a una roccia. Io invece l'ho sempre considerata, se mi si passa l'accostamento, un pò come la capanna primitiva , buona per discutere in teoria, ma inutile a tutti gli effetti nella pratica del lavoro. Colpa dei filosofi, della letteratura, ecc., ma anche del tempio greco. Non ho mai saputo da che parte prendere l'architettura greca, scontrandomi sempre per primo col tempio greco. Che mi è sempre sembrato esageratamente definitivo, forma archetipica e definitiva insieme, forma senza storia, forma astratta appunto. Colpa dei filosofi, della letteratura, ma anche del tempio greco, non per la sua esagerata bellezza, per la sua teatrale apparizione sulla linea dell'orizzonte, non per la sua apparente perfezione, l'equilibrio, la precisione, ecc., ma semplicemente per il suo essere lì senza termini di paragone.  Inafferrabile in senso pratico. Ammirazione quindi, ma senza conseguenze, senza apprendimento: il mio atteggiamento è sempre stato fin qui di sostanziale rinuncia, per necessità. Ho sempre invidiato e ammirato per la loro disinvoltura i neo-greci   di ogni tempo ovunque fossero, in Inghilterra o in Germania, in America oppure nella stessa Atene. Ho sempre trovato ingenue ma sincere e generose le loro cose migliori, così scopertamente  lontane dal loro modello.  
 E' come se il tempio greco venisse prima dell'architettura che conosco, e effettivamente è così per me, prima dell'architettura con cui ho familiarità, in cui mi sembra di riconoscermi, che mi sembra di saper dominare in qualche modo. Forse è perché per me, parlo del mio lavoro naturalmente, la storia dell'architettura comincia con l'architettura romana, tutta la nostra architettura, occidentale, mediterranea, l'architettura europea, quella islamica, ecc., la storia dell'architettura che m'interessa, quella che interviene nel mio lavoro, è tutta racchiusa, per così dire, entro i confini della naturale evoluzione  dell'architettura romana. Forse perché solo di fronte all'architettura romana ho potuto riconoscere che i suoi problemi sono i nostri stessi problemi, e così anche le possibili risposte: come diceva bene Adolf Loos, nelle nostre cose migliori noi seguitiamo a lavorare come lavoravano i romani. E seguitiamo a pensare che la nostra città sia ancora in gran parte la città romana, con le sue grandezze e le sue insuperabili difficoltà.
 Con i greci, parlo di quelli del tempio, è diverso, è come se i problemi, i problemi del tempio appunto, fossero problemi soltanto di tipo tecnico, come se fossero connessi alla messa a punto degli elementi tecnici, del tempio certo, ma nello stesso tempo anche di qualcosa che sarebbe venuto dopo e che sarebbe stato fondamentalmente diverso, pur essendo impensabile senza quel precedente. (Qualcosa di simile a quello che accade alla nozione e all'esperienza di democrazia ad Atene, un'insuperata elaborazione teorica a fronte di un'esperienza quasi senza conseguenze.)     E' come se quei greci avessero lavorato solo sul piano tecnico/teorico, malgrado il tempio greco, e che il resto, cioè la pratica, cioè l'architettura come la intendiamo noi, come la viviamo noi, fosse potuto apparire solo in seguito, dopo che si fosse trovato il modo per usare, con diversa estensione, quella stessa tecnica, per renderla pratica appunto. E' come se l'architettura, quella che maneggiamo noi, quella che già maneggiavano con assoluta maestria i romani, fosse venuta dopo, nata nel momento in cui si era potuto mettere quella tecnica di fronte a dei problemi pratici che da allora in poi sarebbero rimasti più o meno sempre gli stessi, che è come dire, almeno per me, l'architettura messa di fronte per la prima volta ai problemi della città moderna.   
 E' per via del tempio greco che mi è sempre stato così difficile pensare alla città greca, alla città greca classica, pensare ad Atene, come a qualcosa di confrontabile con l'esperienza delle nostre città. Poi è venuto questo lavoro che mi ha costretto ad affrontare, per così dire, il mio problema col tempio. Costretto da una necessità estranea al mio bisogno finora, ho dovuto fermarmi a considerare la relazione fra il tempio greco e la città greca, fra il Partenone e la città di Atene per far subito l'esempio più difficile. Sono stato costretto a vedere il tempio greco come un pezzo di una città che mi era preclusa sopratutto perché mi erano precluse le ragioni della sua architettura, ma nondimeno un pezzo di città.  
 E qui si è ripetuta una cosa che, ogni volta che mi capita, mi coglie di sorpresa, relativa appunto al nuovo atteggiamento, o punto di vista, imposto dalla necessità. Mi riferisco al fatto che, finché non si è costretti dalla necessità, non si va realmente al fondo delle cose, almeno non nel modo che veramente c'interessa e ci appassiona. Voglio dire che è la necessità che ci fa scoprire le cose, ma che è ancora la necessità che ci fa scoprire anche il nostro interesse per quelle cose. E' la necessità che regola la nostra attenzione, aggiusta il nostro guardare e fa cambiare perfino le cose, almeno per noi che guardiamo con occhio diverso da prima. Potrei fare diversi esempi, tolti dal mio lavoro, per esempio la riflessione sull'architettura romana, sul modo di costruire presso i romani, prima e dopo il lavoro sul teatro di Sagunto, oppure la riflessione sull'architettura gotico/mercantile della città nordeuropea, prima e dopo i progetti per la città di Groningen. Cioè l'importanza decisiva di quei momenti obbligati di riflessione e il sorprendente ampliarsi, trasformarsi del loro oggetto. Voglio dire insomma che l'obbligo di lavori imposti ci porta a vedere cose che altrimenti non avremmo visto, ciò che puntualmente si è verificato anche nel caso del lavoro di Atene.  
 Parlo del prima e del dopo di questo mio lavoro su Atene moderna, che ha avuto però come suo principale obiettivo la città antica. Parlo di Atene com'è ora, di com'è diventata un incomprensibile e caotico continuum   urbano, e del bisogno di capire, ancor prima che le ragioni di tale trasformazione, la città com'era, le ragioni cioè della città antica. Parlo dell'incontro con una città sorprendente, almeno per me finora, mai vista prima, perché mai veramente pensata per così dire dall'interno, cioè guardata con l'occhio di chi-fa. Certo, per poter fare, per intervenire, modificare, per aggiungere o togliere, ecc., bisogna prima conoscere, poter giudicare, ma sopratutto, secondo me, bisogna saper condividere, riuscire a condividere quel nucleo di problemi e di risposte in cui si concentra la ragione di essere di quella città. 
 Parlo di quella sorprendente e inaspettata città che era Atene un tempo, una città a scala territoriale si direbbe oggi, fatta di luoghi separati e distanti e di percorsi e di tracciati che la tenevano unita sul vasto territorio. Una città fatta di luoghi distanti fra loro e quindi fatta anche in gran parte di campagna, di ulivi e vigneti, di vita contadina dentro alla città, come non sarebbe mai più stato nella storia delle città. Una strana città così lontana dalle nostre abitudini ormai, ma a cui siamo legati come a nessun'altra. Una strana città davvero, se si pensa che quasi tutto quello che vi accade accade per la prima volta e una volta per tutte nella storia delle città, una città leggendaria fin dall'inizio e insieme reale. Una città fatta di luoghi singolari, unici, luoghi che si confondono con le istituzioni, con l'idea stessa di città, e luoghi straordinari, indimenticabili per lo spettacolo che offrivano e ancora offrono, per lo splendore dei monumenti, oppure soltanto per la particolarità del sito naturale. Luoghi unici e straordinari, diversi tra loro, specializzati diremmo oggi, e necessari in modo uguale alla città, alla sua leggenda come alla sua vita quotidiana. Luoghi anche molto distanti l'uno dall'altro, si è detto, perché non potevano essere che lì dove i fatti si erano svolti per la prima volta e dove erano necessari alla costruzione dell'idea di quella città che era unica. Luoghi legati fra loro da percorsi, da tracciati altrettanto necessari, anche visivamente, architettonicamente, fatti apposta per unire con evidenza. Luoghi che dovevano riconoscersi da lontano, come elementi di un'unica triangolazione visiva, come mete obbligate nella città estesa e poi percorsi, tracciati a conferma dello stretto reciproco legame. Non le vie disegnate e regolari delle città di fondazione o delle città ellenistiche, non le vie trionfali dei romani, ma semplici strade di campagna, uniche perché evidente e unico era il compito di ciascuna, quello di impersonare per così dire un aspetto della vita pubblica nella città, e monumentali per via di questo compito che era scolpito nella pietra, ma pur sempre strade di campagna, perché appunto la campagna occupava gran parte del territorio della città di allora. Una città insieme naturale e artificiale, una città spontanea si direbbe oggi, ma anche una città tutta inventata in modo affatto originale, cioè costruita, artefatta, ecc. in ogni sua parte.
 E' stata questa città, la struttura originale di questa città, questa città immaginata e ricostruita sulle poche tracce rimaste, il punto di partenza e anche la sola guida sicura di questo difficile lavoro su Atene moderna (con l'aiuto dello storico e dell'archeologo beninteso, ma stavolta anche con quello dei filosofi, della letteratura e perfino del tempio greco), un punto di partenza inevitabile per me, per il mio modo di lavorare, ma tantopiù necessario per poter guardare con interesse e con una certa fiducia anche la città di oggi.

Giorgio Grassi
28 dicembre 1996
×