Una Moschea per Telagh
L’opera qui presentata è la moschea della città di Telagh, che sorge alle porte del Sahara, nel sud-ovest algerino . Il progetto, frutto di una attenta analisi di alcuni significativi edifici di culto islamico magrebini, nasce soprattutto dallo sforzo di comprendere aspetti fondanti della cultura religiosa del Maghreb e di rielaborarli in una proposta progettuale che prende le distanze dal vernacolare e dal mimetismo e punta su una chiara definizione di volumi e spazi vuoti, nonché su una nitida articolazione dei percorsi all’interno del complesso sacro.
La moschea della città di Telagh, sorge alle porte del Sahara, nel sud-ovest algerino. Cittadina di fondazione coloniale, Telahg presenta un tessuto urbano a scacchiera e una tipologia residenziale tipica del Midi francese e del sud spagnolo. Centro urbano di medie dimensioni, fino al 1962, anno dell’indipendenza, è stato abitato prevalentemente da coloni di origine francese e spagnola e caratterizzato da una organizzazione urbana che rifletteva esclusivamente le istanze sociali, culturali e amministrative delle popolazioni di origine europea, ignorando i “cittadini” arabi e musulmani, che erano relegati in villaggi o ghetti periferici. All’indomani dell’indipendenza, a seguito della fuga dei coloni, a Telagh, come in tutti i centri urbani, si assiste a un travaso di popolazione dalle periferie e dai villaggi verso le città, che lentamente vengono adeguandosi alle nuove istanze sociali dell’Algeria indipendente.
A quindici anni dall’indipendenza, nel 1977, un comitato di cittadini di Telagh, appoggiati dalle autorità locali, promuove l’iniziativa di dotare finalmente la città di una vera e propria moschea che sia simbolo della ritrovata identità religiosa e culturale della comunità. Trentasei anni fa, quando le ferite della sanguinosa guerra d’indipendenza non erano ancora rimarginate, il Comitato promotore, composto da musulmani praticanti, incarica per il progetto di questo edificio, ricco di grandi valenze simboliche e culturali, uno straniero per giunta non musulmano. La scelta di affidare a un “emigrato” europeo questo importante incarico testimonia non solo un rapporto di fiducia personale con il progettista, ma soprattutto un reciproco riconoscimento culturale, scevro da pregiudizi, che affonda le proprie radici in una più vasta e secolare storia del Mediterraneo.
Il progetto, frutto di una attenta analisi di alcuni significativi edifici di culto islamico magrebini, nasce soprattutto dallo sforzo di comprendere aspetti fondanti della cultura religiosa del Maghreb e di rielaborarli in una proposta progettuale che prende le distanze dal vernacolare e dal mimetismo e punta su una chiara definizione di volumi e spazi vuoti, nonché su una nitida articolazione dei percorsi all’interno del complesso sacro. L’edificio, realizzato con i soli materiali allora disponibili in Algeria (calcestruzzo armato, blocchi di cemento prefabbricati, laterizi forati), mediante l’alternanza di spazi coperti e scoperti e la gerarchia dei percorsi, dialoga con lo spazio pubblico esterno attraverso gli accessi distribuiti su tre lati dei quattro dell’isolato che occupa per intero. Situato in quello che era, e che è rimasto anche dopo l’indipendenza, il cuore amministrativo e sociale della città, con la presenza del municipio, dell’ufficio postale e del mercato, esso è composto da quattro corpi principali: una grande sala di preghiera, con un sovrastante “Matroneo” accessibile direttamente dall’esterno, un cortile porticato antistante l’ingresso (una rivisitazione del quadriportico Romanico) destinato alle abluzioni e concepito anche come luogo d’incontro dei fedeli, un’adiacente scuola coranica, accessibile da un cortile interno, destinato ai ragazzi e comunicante sia con il cortile delle abluzioni che con la strada, e infine il minareto a pianta pentagonale.
Il progetto per le modalità con le quali è stato conferito, sviluppato e realizzato, può ritenersi il frutto di una stagione “felice” in cui si è realizzata una comunicazione fondata sul rispetto delle differenze culturali, in cui ognuna delle voci ha tratto vantaggio della propria esteriorità rispetto all’altro.
«L’uomo non possiede un territorio “interno” sovrano. Egli è integralmente e sempre su una frontiera: guardando dentro di sè guarda negli occhi altrui o attraverso gli occhi altrui». (M. Bachtin.)