PURE - Productivity and Urban Renewal in East Jerusalem
Nelle pagine romanzate della Yourcenar, Adriano si presenta come un attento osservatore della città, consapevole dell’inscindibile rapporto fra essa e l’uomo. Auspica per Roma un destino diverso da quelli pietrificati visti a Tebe, Babilonia e Tiro, imprigionate nelle loro stesse pietre e prive dell’essenza umana.
Si ripropone una città sempre viva e in grado di narrare ed essere narrata, in cui uomo e città siano legati da stretti vincoli, in cui abitare diventi atto fondativo.
Si fa strada quindi la dimensione antropologica che dà vita a quelli che sono intrecci, contraddizioni e le stratificazioni che rendono viva una città.
CONTRASTI
Gerusalemme dentro le mura, la vera, la santa, l’eterna; Gerusalemme fuori, la profana, l’assediatrice, la corruttrice, la profanatrice.” Con queste parole Franco Cardini ci introduce ad uno degli aspetti più evidenti della Città Santa, ovvero la continua convivenza di più realtà differenti fra loro in perenne contrasto.
Quando si oltrepassa una delle nove porte di Gerusalemme e ci si immerge nella penombra delle sue strette e dinamiche strade è impossibile non venire pervasi da un senso di confusione e inspiegabile stupore. Si procede quasi imbambolati, spostando incessantemente lo sguardo su qualsiasi cosa vi sia intorno, come a cercare una qualche spiegazione a quell'insolito stato d'animo. Non si tratta della solita meraviglia e contemplazione provata fino ad allora nel visitare una bella città, una bella architettura o un bel luogo, no, è prima di tutto una sorta di incapacità nel comprendere e assimilare il contesto.
Il caos è travolgente, inebria i pensieri. Colori forti che spaccano l'omogeneità della pietra bianca, odori di un mondo lontano, riti giornalieri irrinunciabili, sagome di popoli che attraversano furtivamente i vicoli. È impossibile rimanere indifferenti, ma quella sensazione di intellegibilità persiste.
Come le rocce del deserto, così le bianche case, di giorno, si stagliano nel territorio brullo riflettendo spietatamente la forza del sole, mentre al crepuscolo si colorano di un tranquillo candore rosa che accoglie il graduale silenzio che cala, quasi irrealmente, sulla città.
È adesso che tutto inizia a farsi più chiaro, le strade svuotate mostrano la città per quello che è realmente, non ci troviamo più davanti solo a uno spazio fisico, ma gli eventi storici che si sono posati su quelle pietre hanno trasfigurato tali luoghi generando inevitabilmente una metafisicità tangibile.
La folla di gente scompare e rimangono solo i militari e gli abitanti più intimi di quelle strade, perlopiù bambini e ragazzi che, pur avendo storie e provenienze diverse, possiedono e trasmettano tutti la stessa consapevolezza di fragilità. Abbiamo davanti una delle città più antiche del mondo che racchiude l’origine delle grandi culture mediterranee e allo stesso tempo una delle città che forse ha subìto più distruzioni, ricostruzioni e conflitti.
Arroccata e chiusa su sé stessa vive giornalmente una condizione di attesa di un qualcosa che può sconvolgerla da un momento all’altro; le giornate trascorrono con questa consapevolezza di precarietà per tutti, fino al momento in cui i rumori della città vengono interrotti da qualcosa di differente, un canto graffiante, che spezza l’incedere veloce del tempo e scandisce un preciso istante del giorno. È uno dei cinque canti di preghiera dell’Islam che ricorda ai fedeli di pregare, e che spinge i non credenti a fermarsi e prendere coscienza di quell’esatto momento. Questi suoni sono antichi quanto la città, sono, anzi, una delle testimonianze della sua eternità.
Le pesanti e straordinarie architetture di culto hanno il compito di ribadire continuamente il carattere atemporale della Città Santa, gridando al mondo intero che finché l’uomo esisterà, esisterà anche Gerusalemme, ma immediatamente si scontrano con i resti e le rovine di quello che un tempo si ergeva al loro posto.
Ancora una volta Gerusalemme convive con due entità opposte che lottano fra loro, due realtà che dovrebbero escludersi a vicenda e che invece coesistono duramente insieme: eternità e fragilità.
Forse il luogo dove tutto ciò è ancora più enfatizzato è la Spianata del Tempio, dove oggi si celebrano le giornate di preghiera dei musulmani e dove il tempo e la storia hanno alternato popoli e religioni. La natura rigogliosa spicca sulla grande distesa pavimentata assolata, i colori circostanti sono tutti la declinazione di un bianco sporco che unifica visivamente il tutto; qui si riconquista il silenzio perduto nella città.
Questo è lo scenario che accoglie il fulcro di tutto, La Cupola della Roccia, che con il suo corpo blu e la sua cupola dorata spicca senza rivali a simbolo e protezione dell’Islam. Qui tutto sembra immutabile e senza tempo: i fedeli compiono i rigorosi riti sacri, i bambini sotto la rigenerante ombra assimilano gli antichi precetti del Corano. Nonostante ciò subito si viene catturati dalle centinaia di pali e teli che si estendono sulla spianata al fine di ospitare le scuole coraniche; niente di stabile, di costruito, di possibilmente eterno, solo dei semplici pali e un telo a proteggere dal sole cocente. Un’architettura effimera senza nessuna pretesa all’eternità, ma esclusivamente al presente: la concretizzazione perfetta di quell’aspetto di precarietà che Gerusalemme si porterà con sé per sempre.
BAB-A-ZAHARA, UN SOGNO INTERROTTO
Un velo sembra essere calato su Gerusalemme ormai da decenni. La città vecchia, immutata, rimane incastonata nelle sue mura, all'esterno di esse un'altra città, sembra osservarla a distanza.
Il conflitto che imprigiona e divide questo luogo non si concretizza solo negli eventi eclatanti di carattere storico, ma assume aspetti molto più sottili e apparentemente invisibili. È in corso una guerra “a bassa intensità” che oltre a paralizzare questa città influisce pesantemente sul suo tessuto.
Lo spazio urbano è al tempo stesso strumento e posta in gioco di questa guerra. Costruire una casa, un edificio, una strada si è trasformato in un atto di dominio e di autodeterminazione. È in questo senso che il conflitto israelo-palestinese è prima di tutto una “guerra di cemento e pietra”.
L'altra Gerusalemme, quella fuori dalle mura, quella moderna, è il risultato di tutto ciò, lo specchio di una realtà che ha interrotto qualsiasi tipo di dialogo costruttivo fra città e uomo, in cui quando si è costruito lo si è fatto per possedere un pezzo in più di terra, piuttosto che per abitare.
Appena fuori dalla Porta di Erode inizia a salire sulla collina Bab a-Zahara, il primo quartiere arabo di espansione fuori dalla cerchia muraria, luogo che forse ha più risentito di questa situazione, che vive cristallizzato e tradito di quel sogno di modernità iniziato sotto il protettorato inglese.
Il 1967 è un anno che ha segnato sicuramente tutta Gerusalemme, ma in particolare questo luogo; la Guerra dei Sei Giorni sancisce definitivamente la fine di qualsiasi possibilità di convivenza pacifica, Israele conquista i territori di Gerusalemme Est e con essi Bab a-Zahara. Da quel momento in poi tutta questa zona vive in apnea, in attesa di poter respirare di nuovo liberamente.
È un luogo di cesura, interruzione, di possibilità mancate. Già Elena, madre di Costantino, sembra aver predetto il suo destino quando decise di privarlo della sua sacralità. Quello che oggi è il monte che ospita il cimitero musulmano, da sempre è considerato il vero Golgota.
Gerusalemme Est vive di speranza, Bab a-Zahara immobile attende ancora di essere all'altezza di un quartiere contemporaneo, attende di poter essere un luogo in cui l'uomo possa vivere dignitosamente, chiunque esso sia.
C'è da precisare che questa zona non è assolutamente disabitata, la gente vive caoticamente tutti i giorni cercando di insinuarsi e di organizzarsi in quei vuoti lasciati dal congelamento di tutti questi anni. Marciapiedi, retri di edifici, corti poco accoglienti, piccoli negozi ricavati in ciò che avanza di piani terra e mezzanini dei fabbricati, cercano di ospitare le necessità della vita pubblica delle persone. Il tutto soffocato da due strade carrabili, Sultan Suleiman St e Salah e-Din St, che diventano una cesura all'interno dello spazio urbano, confinando tutti i riti giornalieri in strette fasce di marciapiede.
Lo spazio pubblico non è più “un insieme di vuoti all'interno di un solido”, ma “un cumulo di solidi in un vuoto quasi intatto”, da elemento di connessione diventa barriera e cesura nel quale si annulla qualsiasi aspetto di sana collettività e aggregazione. Il vuoto perde il ruolo di spazio strutturato, non è più lo spazio di contatto antico, rimane come assenza e mancanza; assenza di forma, assenza di struttura, assenza di collettività, assenza di funzione, assenza di dignità.
È stato inevitabile per sopperire a tale situazione cercare spazio lì dove tutto si è fermato, gli edifici sono stati giustamente violati. Come fossero antiche rovine che non rispecchiano più alcuna funzione precisa sono stati invasi il più possibile e in maniera spesso casuale in modo da ospitare tutto ciò di cui c'era bisogno. Dentisti, parrucchieri, medici, caffe, uffici pubblici convivono e si incastrano in questi contenitori a dimostrazione di una volontà di espansione dello spazio pubblico; il marciapiede tenta disperatamente di entrare in essi, si assiste a un caotico tentativo di ricerca dello spazio pubblico perso.
Salah e-Din Street giace come in attesa davanti alle antiche mura che contengono la densa città vecchia. Gli edifici che la costeggiano si presentano come quinte sceniche di insospettabili mondi nascosti.
L'omogeneo manto della pietra di Gerusalemme viene continuamente interrotto dagli unici elementi che hanno cercato di conquistare quella modernità tanto sognata fino al 1967. Cinquant'anni dopo rimangono solo condizionatori, impianti elettrici, cavi e coloratissime insegne come unico risultato di questa speranza di crescita e di apertura al mondo.
Siamo in un luogo di riscatto, un riscatto che ancora non è avvenuto, ma che ogni singolo abitante di Bab a-Zahara attende.
Il vero vuoto di questa zona non deriva da una costruzione, ma da un'interruzione; è uno spazio che ha subito una privazione generale della propria essenza, è un grande wasteful space all'interno di un'idea, ancora non realizzata, di città contemporanea. È un luogo che è imprigionato nei suoi edifici a causa di uno spazio pubblico quasi inesistente e corrotto dall'importante flusso di macchine che lo attraversa.
PROGRAMMA
Le domande che questo luogo pone sono numerose, la risposta a esse è univoca: l'uomo.
Il progetto nasce proprio con tale intento, restituire una città, che sembra aver smarrito la sua dimensione antropologica, a chi la abita e vive.
L'architettura moderna, con le sue ideologie e regole, ha dimostrato il fallimento dell'edificio-macchina, in cui la figura umana era relegata a semplice utente o al massimo a modulo, intorno al quale dimensionare gli spazi. Qui non vi è niente di tutto ciò, non vi sono dogmi, non vi sono punti programmatici, non vi sono imposizioni di stili di vita, vi è solo un obiettivo, ridonare dignità all'uomo.
Si abbandonano le parole come accessibilità, funzionalismo, macchina, per far posto a permeabilità, dignità, bellezza.
Si riparte dagli elementi fondamentali e primordiali quali strade, piazze, mercati, nei quali l'uomo per secoli ha vissuto e si è incontrato.
La vita a Gerusalemme scorre seguendo riti antichi, ormai strutturati, niente di tutto ciò vuole o deve essere cambiato, le nuove architetture devono accoglierla e farla fluire libera al proprio interno.
La città è un prodotto dell'uomo, come la fede, l'arte, l'architettura, e come tale non può perdere il contatto con esso, la conseguenza è il fallimento.
Come oggetti parassiti assolutamente non autoreferenziali o isolati, quattro progetti si innestano nei differenti vuoti della città, diventando l'occasione e gli strumenti per rispondere in modo univoco a quelle domande che non hanno mai avuto seguito.
Essi hanno il difficile compito riconsegnare all'uomo la città.
Tutti questi presupposti hanno guidato la composizione.
Il risultato è un'unica grande operazione che solo apparentemente è suddivisibile in interventi separati, configurandosi infatti come un attento e calibrato lavoro di ricucitura architettonica, urbana e sociale.
Il gesto che tiene insieme questa idea è la pedonalizzazione delle strade di Sultan Suleiman St e Salah e-Din St, che diventano uno spazio connettore tra la Città Vecchia, le antiche Mura e il Nuovo. Un vuoto che ristabilisce i presupposti di quella dimensione sociale e aggregativa che sembra qui ormai persa. Si sente la necessità di riconquistare la strada come elemento di vita comune, di scambio, di gioco, di aggregazione. Quella strada, che nella città vecchia scava i densi pieni e nella quale avvengono tutte le dinamiche umane, qui si è persa e con essa si è persa anche una visione stratificata della città.
Il costruire in e tra le cose nasce proprio con questo gesto che si configura come un legante indispensabile per connettere con la città e tra loro i quattro interventi puntuali.
Come in un progetto per layers ogni intervento possiede in sé una propria autonomia; solo la stratificazione e l’interconnessione dei vari livelli, attraverso un’ossatura, permette però il raggiungimento completo dell’equilibrio.
Il nuovo bianco suolo, anch’esso di pietra di Gerusalemme fa da collante tra Sultan Suleiman St e Salah e-Din St, diventando il primo livello della stratificazione, nel quale la maggior parte dello spazio è stata riconsegnata all'uomo e solo una minima parte permette il passaggio dei mezzi.
A questo si sovrappongono il livello delle zone verdi e delle vasche d'acqua, il livello delle risalite verticali, il livello dei singoli progetti e quello dei velari.
Ogni singolo layer si innesta con gli altri in quel vuoto tra le cose che pervade questo luogo, ognuno dipende e ed è essenziale per l'altro, tutto coesiste in una sinergia fondamentale.
Per la prima volta il velo che copre Gerusalemme viene sollevato.
ALTRI SGUARDI
Il primo intervento in Salah e-Din Street si configura, come una riscoperta di uno spazio perduto, di un punto di vista dimenticato, che tenta di ricucire quello strappo tra la città antica e quella moderna.
La pedonalizzazione è il presupposto obbligato per tale progetto, ma, come nella città antica non basta un unico sguardo da un unico livello, è necessario salire di quota e andare ad occupare il grande vuoto orizzontale che grava sopra gli edifici esistenti. L' esigenza di espandere lo spazio pubblico oltre la strada si realizza in quel luogo che più rappresenta la speranza e il sogno mai realizzato di modernità. Qui sopra i tetti, infatti, si stagliano, non ancora rassegnati, i ferri di richiamo delle strutture sottostanti, ennesima testimonianza del tradimento del 1967.
La preesistenza diventa un nuovo suolo da costruire, gli edifici diventano elementi tettonici su cui modellarsi, il progetto un parassita che si innesta sopra e tra essi.
Come in un'antica danza il nuovo e l'esistente si sfiorano continuamente senza mai toccarsi in un rapporto di dipendenza e indipendenza inscindibile.
L'oggetto, proprio come un parassita, si poggia sui volumi di pietra e la sua forma, che non può essere stabilita a priori, si modella sui vuoti e i pieni presenti. Un unico grande gesto orizzontale che arretra, avanza, sale, scende, si incunea e grava sugli edifici, come fosse un fregio contemporaneo che sancisce la fine di quel discorso iniziato ormai cinquant'anni fa.
Si genera quindi una correlazione spaziale tra l'ospite e il parassita con il fine di poter abitare spazi finora interclusi e diversi, il tutto però senza mai confondere ciò che è stato prima con il nuovo, così una continua, ma variabile linea d'ombra ha il compito di separare chiaramente le due entità.
Ma cos'è realmente questo oggetto? Una strada? Una piazza? Un giardino? Probabilmente è tutte queste cose e nessuna. Si può parlare di strada se si pensa alla definizione che dà Herman Herzberger di strada-soggiorno: ”luogo dove avviene il contatto sociale fra coloro che vi abitano,[...] la strada soggiorno non è uno spazio interno o coperto, ma uno spazio pubblico scoperto, prolungamento dell'alloggio, che assume il carattere di un soggiorno per il suo uso collettivo, […] uno spazio il cui uso non è riservato esclusivamente al traffico motorizzato, ma […] possa servire anche alle attività più varie delle perone che vi risiedono”.
È piazza se si intende come luogo di incontri ed eventi, è giardino se si pensa agli antichi giardini pensili di Babilonia.
In realtà è un'architettura libera, un fluido trasportatore di persone e movimenti, un oggetto dinamico in quanto ognuno al suo interno è libero di scegliere il proprio percorso, il proprio spazio, il proprio luogo di sosta. È un luogo di speranza, di indugio, di sguardi, di incontri e opportunità.
Proprio così il nuovo camminamento di Salah e-Din Street si vuole configurare, come un nuovo piano contemporaneo in cui la vita possa scorrere e fluire libera.
Per la prima volta gli occhi di chi abita queste strade lasciano la quota del terreno per salire verso il cielo affinché quelle stesse cose, fin'ora conosciute da un'unica prospettiva, vengano riscoperte con occhi diversi, con altri sguardi.
Salah e-Din Street, il cimitero arabo, Bab a-Zahara, le Mura di Solimano, la città antica con i suoi luoghi sacri iniziano a compenetrarsi attraverso gli sguardi e i movimenti delle persone, un sottile filo rosso inizia a legare insieme quella ferita lasciata aperta fra tutti questi elementi.
Il progetto è come un unico grande volume orizzontale che spezza la propria linearità solo per modellarsi ai cambi di livello degli edifici su cui appoggia. I pilastri incompiuti diventano il punto di ancoraggio del nuovo.
Si snoda intorno ai pieni esistenti e va a colmare i vuoti presenti, gli aggetti diventano luoghi di affaccio dove poter guardare ed essere guardati, luoghi in cui assaporare l'ombra dei velari e riscoprire l'elemento naturale, come negli antichi giardini di Babilonia.
Il camminamento appare sicuramente come un elemento scultoreo, dove la massa orizzontale entra in rapporto dialettico con i pesanti volumi verticali delle risalite e della torre del cimitero.
Il materiale metallico, riflettente, e il colore oro rimangono eco delle antiche coperture di luoghi sacri, simbolo di una rinnovata speranza.
Subito all'inizio di Salah e-Din Street, compressa fra due edifici, si innesta la torre di risalita che connette la strada pedonale al camminamento in quota. Qui per la prima volta si palesa l'unico elemento formale che interrompe la continuità materica dell'intervento, la mashrabiya. Una parete verticale cesellata è filtro visivo tra la strada e il luogo tecnico della risalita, così un antico elemento tipico dell'architettura araba, in principio usato come strumento per la ventilazione passiva e come schermo per le donne da sguardi indiscreti, si fa segno contemporaneo.
Le fessure nel materiale schermano la luce creando chiaroscuri, ma a differenza di una parete continua permettono il filtrare anche dello sguardo, in un gioco di ombre, non creando un vero interno e un vero esterno, ma uno spazio permeabile.
Gli altri punti di accesso verticale si incastonano direttamente all'interno degli edifici, lì dove già c'erano le risalite esistenti, nuove scale in acciaio si calano al loro interno, ribadendo quella volontà di costruire fra e sopra le cose.
L'orizzontalità del progetto viene interrotta solo dall'unico volume, fortemente verticale, che sembra fluttuare al di sopra dell'ingresso principale del cimitero arabo.
Lì dove si interrompono i fronti stradali e si apre un vuoto, esso vi si cala e sospeso restituisce importanza a quel luogo tanto sacro quanto dimenticato.
Con il suo peso e la sua verticalità si affaccia sulla strada diventando soglia monumentale e richiamo visivo.
Se dall’esterno appare come un elemento unico, pieno e sospeso nel vuoto, attraversandolo si scopre che esso è in realtà un elemento cavo quasi scavato. La parete obliqua dona una plasticità e un senso scultore allo spazio; qui è svelata l’unione tra esso e il camminamento, la compenetrazione tra il piano orizzontale e l’elemento verticale.
Un leggero telaio in acciaio si nasconde dietro il rivestimento dorato, le due mashrabiya della parete esterna e di quella obliqua filtrano la luce creando antiche suggestioni orientali.
Questa grande operazione però non vuole essere solo un gesto evocativo e sociale, ma mantiene al suo interno un lato tecnico e tecnologico che non può passare inosservato.
Il camminamento, difatti, diventa la copertura di una zona interstiziale compresa tra esso e il tetto dei fabbricati esistenti, in cui vengono collocati tutti gli impianti che ad oggi inquinano la vista delle facciate sulla strada. Si ricava, quindi, un mezzanino tecnico che porta con sé tutte le necessità tecnologiche di tale zona e che permette di riscoprire la semplicità dei prospetti degli edifici in pietra di Gerusalemme.
È qui che torna la mashrabiya, la sua funzione originaria di parete che favorisce la ventilazione viene messa al servizio di un contesto contemporaneo. Le macchine contenute all'interno del mezzanino necessitano tanto di una schermatura quanto di una buona ventilazione che ne impedisca il surriscaldamento. Ancora una volta la sua natura decorativa si fonde imprescindibilmente con il suo lato tecnico.
AULA
Se il camminamento nasce dal vuoto ideale al di sopra degli edifici adiacenti al cimitero, il secondo intervento, il nuovo edificio assembleare, colma un vuoto definito tra due edifici. Il fronte opposto a quello del cimitero mantiene una sua continuità che viene bruscamente negata alla fine della strada. Qui si apre una grande voragine di spazio non costruito che sembra reclamare un proprio ruolo finora assente.
Lo spazio interstiziale assume un ruolo fondamentale, il costruire tra le cose diventa strategia per insinuarsi e connettere fra loro quegli elementi frammentati, non esiste più una logica di pubblico distaccata dal privato.
Il vuoto da elemento di connessione si trasforma in barriera e cesura tra le cose nel quale si annulla qualsiasi aspetto di sana collettività e aggregazione. Perde il ruolo di spazio strutturato non è più lo spazio di contatto antico, rimane come assenza e mancanza; assenza di forma, assenza di struttura, assenza di funzione.
Il primo elemento che va ad invadere questo spazio è la nuova pavimentazione pubblica che, dilatandosi, va a definire quella che è una piazza coperta. Luogo pronto ad accogliere le dinamiche umane, luogo di passaggio, luogo connettore tra Salah e-Din St e le strade rimaste celate dalla continuità degli edifici.
Così le strade che finora accoglievano solo il passaggio delle auto iniziano ad insinuarsi nel tessuto urbano di Bab a-Zahara, con lo scopo di cercare di espandere lo spazio pubblico all’interno dell’intero quartiere.
Si riscopre l’antica funzione di collegamento e non più di barriera dell’edificio stesso.
Completamente libera da sostegni e divisioni, è definita da due nuovi grandi setti perimetrali in cemento. Essi seguono l’andamento della preesistenza, nascondendo la pietra, ma allo stesso tempo denunciano l’autonomia dell’edificio che sorreggono lasciando un vuoto interstiziale tra loro e la preesistenza.
L’edificio che grava sulla piazza non è altro che la sovrapposizione di piani orizzontali in cui avvengono strettamente le funzioni per cui sono stati pensati; i blocchi di servizio e connessioni verticali vivono una loro autonomia compositiva all’interno dell’organismo planimetrico.
La grande scala elicoidale, vera e propria scultura incastonata in un vuoto preesistente, insieme alla torre di calcestruzzo, contenente le scale compartimentale e ascensori, permettono l’accesso ai piani superiori diventando accessori fondamentali per il funzionamento dell’edificio.
Un blocco trasversale unisce le risalite e i diversi livelli generando spazi di attesa, compressioni e dilatazioni. La sala vera e propria è collocata al primo livello, la sua pavimentazione si modella delineando una cavea contemporanea occupando l’intera lunghezza del vuoto.
Al di sopra di essa due sale di differenti dimensioni, diventano luoghi versatili, pronti ad ospitare eventi di varia natura quali concerti, cinema, sala per le feste e fiere.
È forse l’unico vero progetto che configura una funzione di contenitore anche se in realtà la sezione rivela la sua vera natura: esso non è altro che un’ennesima stratificazione di livelli adatti ad accogliere e soddisfare le necessità dell’uomo; una sovrapposizione di segni orizzontali che mantengono tutti una propria autonomia.
Le facciate sulla strada sono mute e delegano l’unica possibilità di dialogo all’ennesima mashrabiya che, come linguaggio infinitamente riproposto, tutto assembla in un’unica trama. Dall’esterno di giorno la luce solare sarà filtrata, la notte, al contrario, le luci dall’interno proietteranno sull’intorno geometrie mistilinee.
È un’altra occasione in cui essa emerge sul fronte stradale entrando in dialogo con la torre del cimitero facendo in modo che quel discorso iniziato con l’idea del camminamento inizi ad espandersi in una logica comune.
I prospetti permeabili consentono che dall’interno dell'edificio si abbia una visione filtrata dell’esterno e si è quindi costretti a salire fin sopra la copertura delle sale per riacquistare lo sguardo sulla città.
Una terrazza parzialmente coperta permette la visione totale dell’intero intervento, ci si relaziona con la città ancora una volta da una quota mai vissuta finora.
PROFUMI
Il Suq di Gerusalemme non è altro che Gerusalemme stessa. La città vecchia ogni giorno si desta con esso e si assopisce quando gli ultimi negozi chiudono. Come nella maggior parte delle città mediorientali, in particolare se cristallizzate al medioevo, lì dove non vi è il sacro c'è il commerciale. E così che allora l'essenza dell'intera città antica si svela quale enorme suq dentro cui si trovano incastonati i santuari creati dall'uomo per Dio.
Quel caos dei negozi con i profumi speziati, i colori e le voci coesiste con i silenzi e le meditazioni delle preghiere e dei pellegrinaggi, il tutto è in un sistema equilibrato di opposti che si sorreggono e sono al servizio gli uni degli altri. Il suq sostiene la presenza dei luoghi santi e viceversa.
Non è un caso che quando si parla della vita di questa città il tutto ruoti imprescindibilmente intorno ai vuoti, vuoti che qui sono strutturati e alla stregua di veri e propri spazi costruiti, dove la densità degli edifici si interrompe per lasciare spazio alla densità degli eventi e dei riti umani.
La dicotomia tra la città vecchia e Bab a-Zahara non risiede nel cambiamento di abitudini dell'uomo, che persistono da secoli, ma tra un modello di città, e quindi di architettura, che le ha assecondate, nel primo caso, e un modello che sembra disinteressarsene ampiamente nel secondo.
Portare la dimensione di mercato in un luogo simile non significa perpetrarne l'immagine che negli ultimi anni ha assunto in occidente, ovvero un grande involucro al cui interno prende vita un mondo parallelo alla città, tutt'altro.
Così l'atto fondativo diviene la costruzione di un vuoto nato dalla distruzione obbligata di edifici ormai troppo compromessi, dove l'unica testimonianza di quello che finora è stato rimane il prospetto su Sultan Suleiman St. Tale gesto non deve essere frainteso con nessun tipo di feticismo storico o mimetismo architettonico, piuttosto, deve essere visto come una scelta necessaria, come l'unico prospetto possibile in un contesto tanto compromesso. Riproporre una facciata contemporanea sarebbe stato l'ennesimo atto di frammentazione e distruzione di una visione complessiva che si è ormai strutturata nella memoria di chi abita Gerusalemme Est. L'architettura deve dare punti di riferimento, in cui l'uomo possa riconoscersi e sedimentare la propria memoria e coscienza comune.
Quella che sembra una quinta scenica, è tutt'altro che fittizia però, se le facciate in cartapesta e legno dei leggendari villaggi Potëmkin nascondono il niente che vi è dietro, essa è la soglia di un vuoto retrostante costruito e plasmato dalla struttura in calcestruzzo armato e acciaio che vi si cala, in modo misurato, tra essa e il monte del Golgotha.
Come uno scheletro, il mercato, dichiara limpidamente tutta la sua essenza, ogni elemento architettonico è denunciato nella sua purezza funzionale e materica senza che inutili rivestimenti ne mascherino e compromettano la natura. L'onestà dell'intervento sottende la volontà di liberare l'architettura dai suoi aspetti sensazionalistici per riportarla, attraverso un lavoro di riduzione dei gesti ai suoi principi fondamentali capaci di plasmare uno spazio tanto poetico quanto utile all'uomo. Non vi è nessun minimalismo di fondo, ma solo essenzialità.
La struttura vive un rapporto di ambiguità con sé stessa, un'ambiguità cercata che si manifesta nel momento in cui il forte corpo portante di pilastri e travi incontra la copertura metallica a traliccio. Proprio lì dove ci si aspetta la massima continuità strutturale tra i due elementi trovano posto delle inaspettate cerniere metalliche che denunciano fortemente l'autonomia di ciò che è ancorato al suolo e ciò che rimane sospeso
in aria.
Come la pietra di Gerusalemme della città vecchia lavorata e incastrata perfettamente è la massima espressione della tecnica e il sapere delle antiche maestranze, così il calcestruzzo armato con cui sono costruiti gli scultorei pilastri, le travi e il piano orizzontale che divide i due livelli, viene riproposto come materiale che ancora può rappresentare il nostro tempo.
Il grigio caldo del calcestruzzo fa da fondale omogeneo alla vita del mercato e come nel tradizionale suq sono i banchi che con le loro spezie, tessuti, frutta e verdura coloratissime spiccano e accendono questo vuoto.
Gli unici elementi della composizione che interrompono la continuità materica sono le colorate piastrelle che disegnano contemporanei mosaici astratti sui pilastri svasati, unico segno decorativo che incarna un forte senso identitario e culturale.
L'intervento racchiude in sé una duplice natura: è sia contenitore aperto per quelle attività commerciali che si svolgono ora in modo disordinato nei ritagli di marciapiede e strade, sia foyer d'accesso funzionale al percorso sulle coperture.
All'interno di questo vuoto i singoli oggetti sono come ingranaggi di un unico grande sistema, il mercato da una parte accoglie la strada al suo interno senza barriere, porte o ingressi preferenziali, configurandosi come una cornice degli eventi umani. Dall'altra la grande rampa elicoidale pur mantenendo la sua funzione primordiale di elemento connettore con la sua imponenza plasma lo spazio verticale di risalita acquisendo il ruolo di accesso a nuovi sguardi.
Questa struttura va al di là del segno urbano e dell'archetipo architettonico. È un grande “artefatto che la natura di per sé non produce, è un elogio alla tecnica”, ma come sottolinea Mendes Da Rocha non è qualcosa di “straordinario”, anzi è lì “per poter dire: guarda come è tutto possibile! Un’esibizione delle possibilità della tecnica. Delle risorse della tecnica”.
“Devo aggiungere che l’architettura “spaventosa” non mi interessa, a me piacciono le soluzioni semplici che nel contempo svelano un contenuto invisibile, l’intenzione è infatti di creare sempre una “magia”, una condizione che a mio avviso deve essere raggiunta attraverso una semplificazione spaziale che nasce come trascrizione di un impianto strutturale”. Queste parole di Paulo Mendes da Rocha inquadrano alla perfezione le premesse teoriche che hanno guidato la composizione.
IL GIARDINO DI AMITIS
“Al suo palazzo egli fece ammassare pietre su pietre, fino ad ottenere l’aspetto di vere montagne, e vi piantò ogni genere di alberi, allestendo il cosiddetto «paradiso pensile» perché sua moglie, originaria della Media, ne aveva grande desiderio, essendo tale l’usanza della sua patria.”
F. Giuseppe, I secolo d.C
La parola paradiso prima di assumere una valenza puramente sacra e religiosa, indicava un luogo recintato, un giardino. La forza che possiede al suo interno la storia del giardino è che da sempre, sia dal punto di vista sacro che architettonico, è stato uno spazio interamente rivolto all'uomo. Nell'escatologia delle tre religioni che popolano Gerusalemme è un simbolo di riscatto e speranza, il luogo dedicato all'uomo dopo il Giorno Del Giudizio.
Nella mitica Babilonia incarna la volontà di costruire veri e proprio luoghi analoghi di realtà lontane; lì dove dominava il deserto, la natura non era mai riuscita a fiorire, se non in controllate oasi e l'acqua era uno dei beni più preziosi, i rigogliosi giardini pensili dimostravano quella necessità dell’uomo di perseguire la creazione, attraverso il sapere tecnico, di luoghi eletti al proprio piacere e benessere anche dove il clima e la natura lo avrebbero impedito.
Amytis, orfana della visione di quei luoghi naturali della sua Media, costrinse suo marito Nabuccodonosor II a costruirle dei luoghi che riproducessero quelle sensazioni perdute, artefatti dell'uomo per sé stesso.
La scelta di costruire un giardino all'interno di Bab a-Zahara nasce dalla volontà di declinare in un contesto urbano così frammentato un luogo totalmente eletto all'uomo, senza una vera funzione, in cui le persone possano incontrarsi liberamente. Un giardino che inevitabilmente trova le proprie origini nei misurati e geometrici giardini arabi, gli stessi che disegnano le racchiuse e silenziosi corti del palazzo dell'Alahmbra, magnifiche testimonianze di una natura progettata al servizio del riposo, della contemplazione e dello stare.
Questa visione acquista un'enorme potenza di significato nel momento in cui entra in relazione con il contesto in cui è calata, assumendo la stessa valenza di una breccia in un muro di confine.
Il grande vuoto, oggi soffocato da un'inopportuna stazione per il trasporto pubblico, è una zona nevralgica e densa di problematiche, perno della cerniera geografica tra due lembi di una città contesa. Il vero Golgotha, la moschea con il suo minareti, le antiche mura di Solimano, gli edifici moderni si accentrano proprio in tale area al limite del quartiere arabo contemporaneo.
È la faglia dove si concentra la divisione tra est ed ovest di Gerusalemme, e inevitabilmente del mondo intero. Essere qui equivale a progettare in un panorama simile alla Berlino degli anni '70, su un ipotetico check point, in cui non è stato necessario innalzare un muro reale per provocare effetti analoghi.
Proprio questa potenza geografica del sito ha svelato il principio generatore dell'intervento, che inevitabilmente ha assunto il ruolo, anch'esso, di perno meccanico di tutto il progetto, generando una condizione geometrica ben definita.
Una condizione di centripità assoluta che cerca riferimenti negli impianti centrali delle architetture antiche, ma che trova l'unica forma consona nel quadrato, figura umana ed assoluta, che può contenere ed essere contenuta in un cerchio, geometria, invece, per eccellenza divina. Questa volta, a Gerusalemme, è l'uomo al centro del discorso architettonico, non più Dio.
Alla luce di ciò, quello che doveva essere un giardino, muta la sua essenza, ergendosi a vero e proprio monumento votato all'uomo.
Se la condizione classica di un giardino arabo è di essere un luogo finito e circoscritto nelle mura del palazzo, qui tutto ciò subisce gli effetti di quella forza centripeta generata dal luogo che infrange qualsiasi costrizione e limite, consentendo così agli elementi che lo compongono di espandersi e distribuirsi verso l'esterno.
Le vasche d'acqua e i giardini sono declinati in chiave contemporanea e secondo una disposizione frammentata e apparentemente casuale, ma che in realtà sottende precise relazioni e geometrie che producono un forte dinamismo compositivo. La nuova pavimentazione in pietra di Gerusalemme, che ristabilisce il contatto tra la strada e le cave di Geremia, viene così disegnata come una tela suprematista.
Il punto di origine di questo movimento centripeto è dove si innesta il vero monumento, un recinto in calcestruzzo armato che plana sul suolo senza mai toccarlo dove i sostegni sono solo una condizione necessaria, non hanno valore compositivo. La pretesa di questo grande volume cavo sarebbe di fluttuare libero in aria: questo è denunciato dai pilastri svasati e iscritti nel perimetro dell'elemento che sorreggono; essi, infatti, cercano di interrompere il meno possibile la continuità del vuoto tra il suolo e la cornice.
La tensione compositiva che si genera è di origine michelangiolesca, ciò che possiede più massa trova posto nel punto più alto della composizione denunciando così tutta la propria gravitas.
Un luogo di grande concentrazione ritagliato nello spazio urbano, stanza del cielo, in cui un qualsiasi orizzonte viene completamente negato da una superficie continua e gli unici elementi permeabili agli occhi e in stretta relazione tra loro sono il cielo e la terra.
Non un semplice oggetto da contemplare, ma un'architettura da attraversare, da scoprire, una sorta di interno-urbano tanto introverso quanto estroverso, tanto pubblico quanto intimo.
È un omaggio a quello straordinario monumento ai partigiani di Gino Valle che, in fondo, per quanto il contesto sia differente, ha gli stessi presupposti spaziali e compositivi. Instaura un rapporto dialettico con l'architettura moderna in una città che non ha mai vissuto nessun tipo di modernità.
Il recinto cela un grande mosaico contemporaneo, che ha perso volutamente qualsiasi riferimento geometrico-figurativo ascrivibile a una precisa cultura o religione, diventando una sequenza continua di candide piastrelle bianche capaci di riflettere la luce e di inondare di chiarore l'interno del monumento.
Esso racchiude in sé una spiritualità universale, una spiritualità senza nome, simbolo di un’auspicata convivenza futura che va al di là di qualsiasi credenza religiosa, fazione politica e popolo.
Questa è la dimostrazione che l'architettura non può limitarsi a rispondere compostamente a una serie di esigenze e prestazioni predeterminate, non può fermarsi a rigidi funzionalismi o a mode passeggere. L'architettura è altro,