Dialoghi. Un centro culturale interreligioso per la città di Firenze
“Firenze. Per gli architetti scatta la missione Sant’Orsola”. Così apriva “La Repubblica” di Firenze in occasione della nuova elezione del presidente dell’Ordine degli Architetti lo scorso 16 Luglio, riprendendo un discorso che da anni si trascina sul destino dell’antico monastero o, per meglio dire, di quel che ne rimane: un relitto abbandonato dopo una tempesta di sciagurati interventi di adeguamento realizzati per ospitare funzioni incongrue rispetto alla tipologia e alla natura dell’edificio.
Sant’Orsola rappresenta una ferita aperta nel corpo della città di Firenze, simbolo dell’incuria, se non del disprezzo, in cui è tenuto il patrimonio culturale non ascrivibile a una firma. Il monastero sorge al centro di un quartiere, quello di San Lorenzo, caratterizzato, come buona parte del nucleo antico della città, da un tessuto compatto, formato da tipiche abitazioni impostate sul lotto gotico e interrotto solo da alcune eccezioni ‘fuori scala’. Tra queste eccezioni, insieme al complesso mediceo di San Lorenzo, con la Basilica e Palazzo Medici, vi è anche il monastero di Sant’Orsola, che occupa quasi un intero isolato. Attualmente l’edificio, pur immerso nella vita quotidiana del quartiere, si trova in uno stato di totale abbandono.
Tuttora sono evidenti anche dall’esterno gli ultimi interventi risalenti al 1985-1990 quando la Guardia di Finanza iniziò i lavori di risanamento per convertire il monastero in caserma. Prima di quest’ultimo e disastroso intervento, il complesso era stato utilizzato come sede della Manifattura Tabacchi e nel secondo dopoguerra come ricovero di sfrattati.Da tempo Sant’Orsola è al centro della cronaca e del dibattito cittadino. In molti, tra politici, tecnici e membri del clero, si sono spesi invano per trovare una soluzione. Attualmente il complesso è di proprietà della Città Metropolitana di Firenze, che si sta impegnando per recuperarlo e restituirlo alla città attraverso gare pubbliche con cui affidare in concessione la struttura, senza raggiungere tuttavia esiti soddisfacenti.
Purtroppo, come spesso succede, ad accendere i riflettori sul corpo martoriato, ma senza autore, di Sant’Orsola non sono bastati il suo palese stato di degrado e la catastrofe architettonica che vi si era compiuta negli anni precedenti, ma è stata necessaria la scoperta, all’interno dell’antica chiesa, dei resti di un altro corpo, quello di Lisa Gherardini del Giocondo, più nota come la Monna Lisa ritratta da Leonardo. Immaginare un possibile futuro per Sant’Orsola ha significato indagare nella sua storia, attraverso i documenti di archivio, disponibili presso la Soprintendenza, l’Archivio storico del Comune e l’Archivio di Stato i quali hanno permesso di individuare le varie fasi di costruzione e di risalire a quei caratteri tipologici e architettonici cancellati negli anni ottanta, comprendere le dinamiche della città e della società contemporanee, e osservare la vita che effettivamente si svolge quotidianamente nel quartiere, trasformatosi negli ultimi decenni in un quartiere multietnico, popolato di negozi di prodotti esotici, senza perdere dunque la sua tradizionale funzione commerciale. Da questa indagine sono emerse delle ‘vocazioni’ architettoniche e funzionali che si è cercato di assecondare, nell’ottica di delineare un destino congruo, adeguato, quasi ‘naturale’ per Sant’Orsola, sia sul piano dei caratteri architettonici che sul piano socio-culturale. Da qui nasce l’idea di un Centro Culturale interreligioso per la città di Firenze. A fronte degli eventi drammatici che si verificano in ogni parte del mondo sortendo l’infausto effetto di dividere popoli ed etnie, si vuole affermare con questo progetto di architettura, che recupera un frammento di città per restituirlo come bene comune ai suoi abitanti, la necessità della conoscenza reciproca come mezzo per l’integrazione e la convivenza pacifica.
A ben vedere il progetto agisce come una sutura che tenta di rimarginare le antiche ferite della città e le più recenti della società. Rispetto al complesso di Sant’Orsola, è d’obbligo una riflessione riguardante il legame tra opera d’arte e restauro, ovvero se, come suggerisce Brandi, sia ancora possibile “riconoscere”, in ciò che rimane del monastero, un prodotto artistico. Ne consegue una domanda di non facile risposta: è ancora possibile parlare di restauro intervenendo su Sant’Orsola? Tra le diverse strade percorribili, che vanno dalla demolizione e ricostruzione “com’era dov’era”, alla conservazione dello stato di fatto quale testimonianza cruda del tempo e dei tempi, alla parziale sostituzione di porzioni compromesse o ritenute estranee al carattere precipuo, originale, dell’edificio, fino alla completa demolizione e sostituzione, il progetto opta per la conservazione sostanziale del manufatto quale ci è stato lasciato in eredità, limitandosi a interventi puntuali che in parte riutilizzano le strutture realizzate negli anni ottanta. Si tratta di un “far di necessità virtù”, che ci è parso consono ai tempi e alla storia tragica dell’edificio. Alcune porzioni di recente costruzione vengono invece sostituite allo scopo di adattarle al nuovo uso.
Il centro culturale interreligioso si compone di una biblioteca, un percorso museale, uno spazio per la preghiera comune ed una parte direzionale a servizio della biblioteca e del museo. Tutto il complesso gravita intorno ad uno scavo ricavato al centro del chiostro, il principale quello cosidetto “dell’orologio”, chiamato così vista la presenza di una meridiana, che al tempo della Manifattura Tabacchi scandiva le pause delle tabaccaie dal lavoro. Questo cortile ipogeo, la cui pianta quadrata ha un valore simbolico perché allude al numero delle religioni monoteiste (Cristianesimo, Islamismo, Ebraismo, Buddismo), rappresenta il cuore dell’intervento, intorno al quale si dispongono gli ambienti della biblioteca sfruttando le strutture che furono erette per la realizzazione del parcheggio interrato.
L’accesso al chiostro è garantito da due ingressi: da via Taddea, attraverso una nuova apertura inserita nel prospetto; da via Guelfa, attraverso un percorso ottenuto demolendo una porzione di edificio costruita nella seconda metà del ‘900. Quest’ultimo collega il complesso con l’asse centuriale, consentendo al chiostro, che diventa piazza urbana, di riconquistare il legame fisico con la città e di farsi da tramite al rapporto visivo tra via Taddea e via Guelfa. Entrando nel chiostro, è possibile scendere alla quota della biblioteca grazie ad una scala esterna che accompagna il visitatore al chiostro ipogeo. Attorno al chiostro si trova il deposito dei libri, scandito da un susseguirsi di celle la cui misura deriva dalle campate del portico (ora tamponato) collocato intorno al chiostro dell’orologio. A ogni finestra corrisponde una cella e a ogni cella corrisponde una postazione di studio. Tutta la biblioteca appare come sorretta da un’ossatura di libri. “Firenze è una città di pietra”, scrive Piovene. Così il chiostro della biblioteca è rivestito in pietra a sottolineare la natura “altra” rispetto ai corpi di fabbrica intonacati che lo circondano.
Ed è proprio la linea d’ombra formata dallo slittamento dell’ultimo filare in pietra del parapetto a segnare il confine netto tra ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, tra il nuovo e l’antico. L’ingresso principale alla biblioteca avviene dal chiostro, dove lo spazio dedicato alla reception e alla consultazione dei cataloghi collega la biblioteca con il locale interrato che segue il perimetro del complesso su via Taddea. Quest’ultimo garantisce il collegamento interno tra la biblioteca e gli altri piani di Sant’Orsola, dove trovano spazio aule didattiche e altri spazi funzionali alla biblioteca stessa.
Attorno al chiostro centrale del monastero, il progetto prevede la completa demolizione della parte ad ovest in struttura metallica all’interno e del rispettivo prospetto lungo via Taddea. Edificato durante gli ultimi interventi degli anni ’80, nella sua ricostruzione viene ampliata la corte interna e disposti i locali utili agli uffici a servizio della biblioteca e del museo. Questo intervento ha interessato due frammenti di prospetti, uno interno al chiostro centrale e l’altro esternamente, lungo via Taddea. I nuovi inserimenti trovano nel ritmo regolare e duro delle aperture il dialogo con i prospetti esistenti, separati da quest’ultimi da una piccola linea d’ombra a memoria delle diverse fasi costruttive.
Il museo di arte sacra trova collocazione nel blocco ovest del complesso, esteso da via Taddea a via Guelfa lungo via di Sant’Orsola su due piani. Nella parte più antica del monastero, dove insistono un’aula voltata, usata dalle monache di clausura per le loro funzioni religiose, e un chiostro adiacente all’aula contenente gli scavi, si trova un frammento di affresco raffigurante un angelo, opera delle monache stesse.
In questo spazio troverà sede un’aula per la preghiera: uno spazio libero, eppur sacro, dove si potrà pregare individualmente o collettivamente, ognuno secondo il proprio credo. Pochi sono gli elementi che lo caratterizzano: pareti ad intonaco chiaro, due volte a vela, un frammento di affresco, un ambone in travertino per la lettura dei testi sacri. L’aula è attraversata dalla luce del sole grazie alla presenza di tre archi. Una luce d’Oriente, dove tutto ebbe inizio. Oltre la luce, una vasca d’acqua che manifesta la propria profondità nella sezione digradante. La vasca, che trae le sue misure dalle volte dell’aula di preghiera, è simbolicamente una cupola rovesciata che cattura il cielo col riflesso.