divisare

Pensare rappresentando o rappresentare pensando

Disegnare è un’esperienza felice, avventurosa, piena di scoperte. Ma è anche un’arte che provoca disagio, difficoltà, ritorni continui su quanto si è già fatto. Questa duplicità è inevitabile, nel senso che se spesso si deve disegnare ciò che già si conosce, si deve disegnare ancora di più ciò che si sta ancora cercando. È come se il mondo dei segni fosse diviso in una zona luminosa che non pone problemi nel percorrerla e in una zona oscura nella quale occorre procedere per tentativi. Inoltre cercare ˗ e anche cercarsi ˗ vale a dire scoprire con pazienza di individuare quel segno che è unicamente di chi lo sta individuando, quella pressione sul foglio nell’imprimerlo, quell’ambiguità nel precisarlo che lo rende a volte fisicamente bene inciso sul supporto e subito dopo leggero, quasi evanescente. Ovviamente la duplicità descritta si attenua quando si disegna un’architettura in quanto, essendo essa un corpo, possiede un sua intrinseca fisicità che rende la difficoltà di cui si è detto meno pronunciata, anche se non è possibile che essa si presenti alla mente e alla mano. In qualche modo è proprio l’essere un edificio o un quartiere realtà fisse, dotate di misure ripetute, costruite con procedure note che rendono il disegno di architettura meno impervio di quello riguardante il corpo umano, un albero, una nuvola che il vento continua a modellare. Tuttavia è proprio questa minore difficoltà che può rendere il disegno di architettura più strumentale e ripetitivo.       

Esistono come è noto più modi di pensare/rappresentare un’idea di architettura. Si può ad esempio praticare una scrittura automatica attraverso la quale far emergere dal disegno interno, si potrebbe dire con Federico Zuccari, temi e motivi di una composizione la quale, schizzo dopo schizzo, si definisce in termini sempre più precisi. Un altro itinerario creativo è quello di pensare intensamente un’architettura fino a quando essa appare nella mente in modo talmente chiaro da poter essere disegnata con sufficiente esattezza. In questo caso il disegno interno si specchia direttamente in quello esterno. Un terzo tipo di ricerca consiste nell’aggirarsi dell’immaginazione tra varie configurazioni separando in un certo senso il pensare dal rappresentare. In breve alcuni architetti alternano continuamente immagini mentali e schizzi nel tentativo di trovare una sorta di media statistica tra queste due espressioni, le cui differenze sono peraltro minime. Sinteticamente si potrebbe allora sostenere che l’idea del comporre, che chi scrive preferisce alla nozione simile, se non identica, nonostante molti non siano d’accordo, a quella del progettare, quando è intesa nel suo senso più corretto non può che costituirsi come una relazione tra il continuo trasferimento di ciò che si immagina con ciò che si rappresenta.

Ovviamente le prime due modalità sono quelle messe in atto dagli architetti più capaci di orientare il processo creativo controllandone il percorso. Rispetto ai primi due il terzo è senza dubbio il più empirico anche se può dare anch’esso risultati positivi. Nel primo e nel secondo la matrice tipologica dell’organismo al quale si sta pensando  rappresentandolo o, all’inverso rappresentandolo mentre lo si pensa, è individuata contemporaneamente alla sua volumetria, al suo rapporto con il contesto, alla sua relazione con i materiali costruttivi, agli eventuali dettagli. In breve l’edificio nasce quasi interamente tra pensiero e rappresentazione, due sfere la cui alleanza è strategica per ottenere un risultato unitario, complesso, organico o al contrario, se si vuole, frammentario, semplice, casuale. In ogni caso quanto detto significa che non si può concepire una composizione se non come esito di una dialettica misteriosa nel senso del suo essere insondabile e a più strati di significato tra uno schema architettonico concettuale che è evolutivo entro limiti che non ne alterino oltre un certo limite i caratteri e il disegno che esprime non solo tale schema ma che è anche in grado di mostrare i rapporti dello schema stesso, anche se sommariamente delineato, con il contesto. Va aggiunto che uno schizzo è un disegno caratterizzato sia dalla velocità di esecuzione, sia dal notevole livello di sintesi che lo accompagna. Infine lo schizzo possiede sempre un che di idealizzante il quale, mentre indica con pochi tratti un manufatto allude, anche nei primi due casi, a una sfera di potenziali costruzioni simili. Resta da dire che uno schizzo è un elaborato i cui segni sono assolutamente personali o, se si preferisce, tra i più personali che si possano tracciare, al punto che si potrebbe sostenere che c’è in esso la stessa qualità autografica che esiste nella scrittura manuale.

I disegni di Dario Passi dal 1980 al 1987, raccolti sotto il titolo Drawings in cinque libri contenti in un cofanetto riguardano il suo lavoro di architetto, prima della sua scelta, che sembra ormai definitiva, per la pittura. Questa parziale, se è consentito chiamarla così, opera omnia comprende sostanzialmente il lavoro di prospezione iconica che precede il progetto. Il mondo che compare in queste pagine evoca una Roma la quale, pur non essendoci mai stata, è più vera di quella di molti suoi quartieri. È soprattutto una città di intensivi, nei quali si ritrovano memorie delle grandi architetture urbane di protagonisti come  Mario De Renzi, Cesare Pascoletti, Mario Marchi, Gaetano Rapisardi. Atmosfere razionaliste si mescolano a memorie del Novecento e a risonanze dechirichiane e sironiane in una ibridazione coinvolgente nella quale la dimensione poetica di Dario Passi acquista una verità nella quale la teoria incontra l’emozione. Come si diceva all’inizio il disegno di architettura dell’autore dei cinque libri non ha alcunché di convenzionalmente seriale. Al contrario  ogni suo schizzo o qualsiasi disegno più definito vivono in un loro spazio riconoscibile e a suo modo autonomo raccontando in modo sempre diverso non solo come un certo edificio è, ma anche il modo con il quale esso è stato ideato e reso visibile.     

Nei cinque libri che compongono il cofanetto è possibile individuare una serie di temi architettonici in opposizione che compaiono con una certa continuità. In queste note se ne scelgono tre. Il primo è la relazione tra analisi e sintesi. Gli schizzi di Dario Passi sono qualcosa di più di un rapido appunto su un motivo da sviluppare successivamente. I suoi disegni sono infatti la registrazione istantanea di una impressione spaziale e di una volontà costruttiva, rappresentazioni entrambe articolate nei loro elementi determinanti e al contempo sintesi compiuta di un’idea. Carichi di una forza descrittiva che non è mai illustrativa ma riassume una scelta grammaticale e sintattica inverata in una soluzione tecnica gli schizzi compongono nel loro insieme un trattato di architettura in evoluzione nel quale ogni disegno si mete in contatto con tutti gli altri dando vita a una intensa e matematicamente esatta circolarità teorica. Il secondo tema è anch’esso un’opposizione, questa volta tra singolarità e pluralità. Dario Passi è una monade e al contempo una rete. Per lui l’architettura è il frutto di un’elaborazione interiore che si nutre di esclusione più che di inclusione nel momento stesso in cui, da altri punti di vista, è il risultato di uno scavo incessante tra materiali architettonici accuratamente selezionati. Materiali coerenti ˗ dalle architetture degli Anni Trenta a certe visioni della Tendenza, il tutto completamente ricreato ˗ come se  le architetture che compaiono nei cinque libri si vedessero per la prima  volta. La terza opposizione ˗ l’ultima in questo testo, ma come si è già detto ce ne sarebbero altre  ˗ è la dialettica tra moderno e antimoderno. L’architettura di Dario Passi è moderna, anzi di una modernità eroica che sa sfidare le convenzioni visive proponendo immagini nuove, che mentre giocano sul rapporto proporzionale tra vigorose masse plastiche, che a volte richiamano tonalità espressioniste, fanno emergere accenti dell’altro moderno, inseriti a contrappunto dei primi in un’alternanza di affermazioni positive e negative quanto mai attuale. Come pure utopie formali, e non come conseguenze tipologico-formali di utopie sociali, le architetture che compaio nelle pagine dei cinque libri sono elementi  di una città non tanto analoga rispetto a quella esistente, come è quella rossiana, ma una città futura che è la memoria di quella del presente. In questa inversione di tempi Dario Passi trova una vena ermetica che il suo presente lavoro sul disegno porta alla luce assieme alla seduzione mentale che tale rovesciamento del tempo sa produrre.

Sul lavoro architettonico di Dario Passi hanno scritto in molti. Tra i critici c he si sono occupati di lui basterà ricordare alcuni nomi come quelli di Achille Bonito Oliva, Francesco Moschini, Vittorio Savi, Giorgio Muratore, uno dei più assidui osservatori della ricerca dell’autore di Drawings e a volte suo collaboratore. Delle tre costanti di cui si è parlato la terza è quella che secondo chi scrive appare la più decisiva. Associare in una tensione narrativa modernità e contemporaneità significa, secondo Giorgio Agamben, “appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo”. Non c’è alcun dubbio che questa divisione tra una modernità incompiuta alla quale il contemporaneo potrebbe conferire una finitezza dando un seguito, sebbene differito, ai suoi ideali è uno dei contenuti più evidenti del gioco paziente, sorprendente, di Dario Passi.                  

Franco Purini
05/04/2017

Mentioned Books
DARIO PASSI     DRAWINGS 1980-1987 VOL 1
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ISSUE #1

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DARIO PASSI     DRAWINGS 1980-1987 VOL 2
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ISSUE #2

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DARIO PASSI  DRAWINGS 1980-1987  VOL 3
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DARIO PASSI DRAWINGS 1980-1987 VOL 4
DARIO PASSI
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DARIO PASSI DRAWINGS 1980-1987  VOL 5
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DARIO PASSI ROME. LUNGOTEVERE FLAMINIO AND PIAZZA MANCINI - 1981
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ISSUE #33

Second Edition September 2017
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